La notte in cui distrussi un Universo

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La notte in cui distrussi un Universo è il prologo di una cosa che ho iniziato a scrivere, che si è bloccata e che ho bisogno di capire come portare (e se portare avanti).
Parla di giochi di ruolo, quell’attività che consiste nel costruire un mondo insieme ai tuoi amici con le parole e con i dadi.
È una specie di regalo di Natale, se vi va.

Avevo diciassette anni, la notte in cui distrussi un Universo.
Era il 16 luglio del 1996, erano le tre e mezza di notte e, nonostante la finestra aperta e il ventilatore che andava a tutta forza e ci costringeva a tenere le matite e i dadi sopra alle schede dei personaggi per non farle volare via, c’era un caldo umido che non si riusciva in alcun modo a rendere più tollerabile.
Eravamo i soliti cinque: io, Andrea, Daniele, Mattia e Julian. Sul tavolo avevamo tutto il necessario: i dadi, le matite, i manuali, i fogli di appunti, le bibite ormai calde e sgasate. Miniature no perché eravamo giocatori di ruolo, non wargamers, e di sapere la posizione esatta occupata nel campo di battaglia dai nostri personaggi non ce ne fregava niente. Julian non era d’accordo, le prime volte aveva provato a imporci la griglia esagonale e i “soldatini”, ma avevamo fatto ostruzionismo e si era lasciato convincere. In fin dei conti era più comodo per tutti.
“Molto bene,” aveva detto, dopo che il dado a venti facce lanciato da Andrea si era fermato mostrando ben chiara la faccia con impresso sopra il numero uno.
Julian era il Dungeon Master: sceneggiatore, regista, arbitro e Dio, organizzava e dirigeva lo svolgimento del gioco. Quando il Dungeon Master dice “molto bene” non è mai per qualcosa di bello: è vero che i giocatori non giocano contro il Dungeon Master, ma lui è quello che deve gettare ostacoli sulla loro strada per rendere più interessante il gioco. In questo caso, “molto bene” voleva dire che il personaggio di Andrea, il possente guerriero barbaro Ryon (dal nome del mentore di Conan il Barbaro, personaggio di cui Ryon era un calco fatto e finito), aveva fallito il lancio di dado che gli avrebbe permesso di ridurre i danni dell’incantesimo che il nostro mortale nemico, il non-morto Atroxan, gli aveva scagliato contro. “Sono 17 punti ferita, Andrea.” Julian sogghignava.
“Merda, sono giù. Sono a meno tre,” disse Andrea. Sbatté la matita sul tavolo. “Cazzo.”
Julian si voltò verso di me. “Bene,” disse. “Siete rimasti solo tu e Atroxan. Iniziativa per il nuovo round?”
Ma quello non era un turno di combattimento come tutti gli altri. Era l’ultimo del combattimento, comunque sarebbe andata a finire. Era la fine di due anni e mezzo di gioco, il momento della verità, lo scontro con l’arci-nemico sconfitto il quale il bene avrebbe tornato a regnare sul mondo di Rondan. Non era stato facile, arrivare fino ad Atroxan e avere una reale possibilità di ucciderlo. Negli ultimi otto mesi eravamo stati impegnati, un fine settimana dopo l’altro, a uccidere chiunque ci bloccasse la strada, a raccogliere indizi, fino a che non eravamo riusciti a mettere le mani sull’oggetto dove Atroxan aveva racchiuso una parte della sua anima, grazie al quale sarebbe potuto sfuggire alla morte. Era un anello di pietra, che avevamo come da tradizione gettato nella bocca di un vulcano.
Poi era iniziata la lunga caccia al nostro nemico: lo avevamo inseguito per mezzo mondo, tra foreste, paludi, deserti, castelli, tombe, rovine. Ogni volta ci sfuggiva un attimo prima che gli potessimo dare il colpo di grazia, ma ogni volta veniva privato di una frazione del suo potere.
La resa dei conti si stava svolgendo nel profondo delle caverne del Cuore del Mondo, la versione creata da Julian di Agarthi per il suo mondo. Cosa ci era andato a fare Atroxan? Non lo sapevamo, ma non ci importava. Ormai, volevamo solo distruggerlo.
Raccolsi il dado.
“Uso la Luckstone, per questo lancio,” dissi.
“Ok, lanci due dadi e scegli il migliore,” rispose Julian. Sorrideva, come se fossi caduto in qualche trappola.
“Spaccagli il culo,” disse Mattia. Dwergar, il suo mago, era nel limbo dei punti ferita negativi, privo di sensi e impossibilitato a fare qualsiasi cosa.
“Forza,” ribadì Daniele. “Fallo per Ryon, per Dwergar e per il povero Ruthven. Neanche tre round sono durato, porca merda.”
“Te l’ho detto io di fare il bardo?” gli dissi.
A nessuno piacciono i bardi, con le loro canzoni e il loro saper fare tante cose ma male. A nessuno tranne a Daniele.
Julian alzò una mano. “Silenzio. Tira l’iniziativa e facciamola finita.”
Scelsi due dadi a dieci facce, uno rosso e uno trasparente. Li cullai nella mano destra, li agitai e poi aprii la mano per lasciarli cadere sul tavolo. I poliedri irregolari, ogni faccia un rombo lungo e stretto, rotolarono come piccole trottole. Colpirono un bicchiere e il dorso di un libro e si fermarono. 8 e 0, che sarebbe a dire un dieci. “Ci sommo uno per la destrezza e uso una carica dell’anello della rapidità. Dodici.”
Mattia alzò un pugno al cielo. “Sì!”
“Forza,” gli fece eco Andrea.
Daniele fece un cenno con la mano. “State buoni, che deve ancora tirare il lich.”
Julian si lasciò scappare un sorriso, un attimo prima di raccogliere il mio dado che aveva fatto dieci. “Prendo questo che sembra fortunato.”
Il dado rotolò sul tavolo. Che rumore fa il destino? Questo, come il ticchettare di una fatina sui tacchi.
Quando il dado si fermò al centro del rombo c’era un’unica fessura, come il segno di un colpo di scure su uno scudo: uno. Il lich aveva perso l’iniziativa, nel modo peggiore in cui poteva perderla.
“Sì!” esclamammo all’unisono noi quattro. Julian non reagì, unì la punta delle dita e se le mise davanti alla faccia, un po’ come Dylan Dog. “Allora, che fai?”
Mi batteva il cuore, più forte di quanto avrebbe dovuto. Era solo un gioco, no?
Lo sapevo da almeno due turni di combattimento, quello che avrei fatto. Era l’unica speranza che avevamo di sconfiggere Atroxan.
“Attacco. Uso il potere della Spada della Anime,” dissi.
“Cazzo, no, non puoi,” disse Mattia. “Sei un paladino, usare il potere della Spada delle Anime è un atto malvagio.”
“Posso, invece. Tanto che posso tranquillamente impugnarla e usarla come una normale spada magica. E’ solo usarla per distruggere un’anima che è un atto malvagio, giusto Julian?”
Julian annuì. “Un paladino può scegliere di deviare dal sentiero del bene. E affrontare le conseguenze, ovvio.”
“Dio, quanto mi piace il libero arbitrio,” disse Daniele. “Dai, succhia via l’anima al pezzo di merda. Mal che vada sarai il prossimo super-cattivo da sconfiggere.”
Mattia mimò un applauso. “Meno male che l’avevamo data al paladino perché nessuno sfruttasse quel potere diabolico.”
“Infatti la sto usando ora, al momento giusto. L’avessimo lasciata l’avresti buttata via alla prima occasione, l’unica carica,” risposi.
Daniele mi batté una mano sulla spalla. “Grandissimo, è un finale strepitoso. L’eroe che sacrifica la sua purezza per salvare il mondo. Ruthven canterà le tue gesta per secoli.”
“Non vorrei fare il guastafeste,” ci interruppe Julian, “ma non è un po’ troppo presto per farvi i pompini a vicenda?” Indicò il dado a venti facce che avevo davanti. “Tira per colpire.”
Raccolsi il dado. Era il mio dado fortunato, da sempre. Lo chiusi nel palmo della mano. Agitai una volta il pugno e poi mi fermai. “No,” dissi e misi giù il dado. “Qua non ci vuole il dado fortunato. Ci vuole un dado speciale.”
Slegai la sacchettina in velluto nero e rovesciai il contenuto sul tavolo. Una cascata di dadi a quattro, sei, otto, dieci, dodici e venti facce. Dadi colorati, marmorizzati, trasparenti. Dadi a sei facce con simboli al posto dei numeri. Ma quello che mi interessava era un dado a venti facce grigio, con i numeri bianchi, salvo i dispari che avevo, chissà come mai, ripassato a pennarello. “Il mio tesssoro,” dissi.
Gli occhi di Mattia si illuminarono. “Il dado della scatola rossa di D&D, giusto?”
Mattia l’aveva riconosciuto, era il dado della mia prima scatola di Dungeons&Dragons, quella con cui avevamo iniziato a giocare insieme, durante le vacanze di Natale di qualche anno prima.
Annuii.
“Che romantico,” disse Julian. “Mi si spezza il cuore. Tira per colpire.”
Andrea e Daniele annuirono.
“Muori, cane dell’inferno,” dissi. “Lascia che la Spada delle Anime banchetti con la tua anima putrida.”
Lanciai il dado e non mi resi conto di quanta foga ci avessi messo. Il dado, con gli angoli smussati da anni di lanci, rotolò sul tavolo come una palla di cannone, colpì una bottiglia di gassosa e carambolò via, diretto verso il bordo del tavolo.
“Vale!” gridò Julian. “Qualunque cosa esca vale!”
Il dado cadde per terra, rotolò sul pavimento e andò a infilarsi sotto al mobile della tv.
“Chi lo prende?” chiesi. Da dove eravamo nessuno di noi riusciva a vedere il risultato.
Andrea sbuffò. “Dai, fallo ritirare.”
“No, il lancio è quello,” disse Julian. Si alzò e si diresse verso il mobile. Si accucciò.
“Non lo vedo,” disse. “Bisogna tirarlo fuori.”
Daniele scosse la testa. “Se lo tiriamo fuori c’è rischio che cambi il risultato. Sarebbe come rilanciare.”
“Vero,” concordò Mattia.
Julian strinse un attimo gli occhi, poi disse: “Ok, sposto il mobile.”
Era un’idea stupida, ma era la cosa giusta da fare, anche se voleva dire spostare prima il televisore, un bel 26 pollici con un tubo catodico che pesava come il martello di Thor. “Dai, datemi una mano.”
Staccammo antenna e videoregistratore, poi Daniele e Mattia sollevarono la tv. “Appoggiamola sul tavolo.”
Julian tirò via il mobile, facendolo scorrere piano verso di sé. I piedi strusciarono per terra con un rumore d’inferno che di sicuro avrebbe svegliato i vicini del piano di sotto, ma eravamo troppo eccitati per preoccuparcene. Persino Julian sembrava avere perso un po’ della sua proverbiale freddezza.
“Diciassette!” strillò Andrea.
“Diciassette,” ripetei io.
“Diciassette?” chiese Mattia.
“Diciassette!” urlò Daniele.
“Diciassette. L’hai preso,” constatò Julian. “Mettiamoci sul divano, che al tavolo non si può.”
“Prendo la scheda?” chiese Andrea.
“No, non serve. Ce la giochiamo così.”
Ci sedemmo sui due divani messi ad angolo. Ci davamo pacche sulle spalle, ridacchiavamo. Non Julian. Julian era silenzioso. Quasi solenne.
“Dai, dai,” disse Mattia. “Che cosa succede?”
Julian fece un bel respiro. “L’hai colpito,” mi disse fissandomi negli occhi. “La tua lama supera le protezioni magiche che circondano Atroxan, perfora qualcosa che ha la consistenza della carta. C’è un istante, un istante solo, in cui i vostri occhi si incrociano, prima che la magia della spada entri in azione, e in quell’istante ti sembra quasi che gli occhi del lich, quei due pozzi di oscurità assoluta, ridano. Ma è solo un istante. Il braccio che regge la spada trema, attraversato da una forza che non avresti mai immaginato di sentire: è l’anima di Atroxan che viene risucchiata dalla spada. Il demone che era stato intrappolato nell’acciaio urla di gioia, come scosso da un orgasmo bestiale. Senti il dolore risalire su per il braccio, adesso ti sta mordendo la spalla. Un velo gelido cala sulla tua anima. Ma non hai tempo di preoccuparti di quello, perché il grido del demone sta cambiando, o forse non è mai stato un grido di gioia. E’ un grido di terrore. Ma non hai tempo di preoccuparti neanche di questo, perché nell’istante in cui il demone ha finito di divorare l’anima di Atroxan l’universo cessa di esistere.”
Silenzio. Dalla finestra aperta entravano i rumori della notte estiva: qualche macchina per la strada, la macarena suonata da un locale lontano, cicale. Su di noi era calato un silenzio così perfetto che li sentivamo tutti perfettamente.
Percepii qualcosa, me lo ricordo come se fosse ieri. Un tremito nella Forza, per così dire.
Julian ci guardava come se si aspettava che dicessimo qualcosa. Ma io non sapevo cosa dire. E neanche gli altri, a quanto pare. Ci scambiammo una rapida occhiata nervosa.
Poi per fortuna ci pensò Daniele a dire qualcosa. “Wow”. Aveva gli occhi spalancati, le sopracciglia alzate e quasi lo sussurrò, il suo apprezzamento. “Wow, semplicemente wow. Voglio proprio vedere a settembre come riprendiamo.”
“Già, grandissimo Julian. Brividi. Una saga cosmica di distruzione e rinascita. Neanche Clearmont,” dissi.
“Non capisco di cosa state parlando,” sorrise Julian. “Non ci sarà nessuna prosecuzione. La campagna è finita. Avete disintegrato l’universo.”
“Ma che cazzo stai dicendo?” La voce di Mattia sarebbe stata troppo alta anche di giorno, di notte sembrò un ruggito. “Cosa vuol dire?”
“Beh, non dovreste saperlo, ma tanto vale darvi quest’ultimo tassello: Atroxan aveva collegato la sua esistenza a quella del Cuore del Mondo. L’avete ucciso esattamente dove voleva essere ucciso per portare a termine il suo piano.”
Mattia non abbassò la voce. “Ma che stronzata, dai. Ci stai pigliando per il culo, te lo sei inventato adesso!”
“Cazzo, non gridare,” disse Daniele. “Julian non si è inventato niente. Vi ricordate i Guardiani della Fiamma? Avevano cercato di metterci in guardia e quando non li avevamo ascoltati avevano cercato di fermarci.”
“Ma perché erano stati soggiogati dal potere di Atroxan,” dissi io. “Per quello!”
Julian sorrise. “Quello l’avevate deciso voi. Io non ho mai detto nulla del genere.”
“Fatemi capire,” disse Andrea. “Abbiamo sterminato i buoni? Quelli che volevano salvare il mondo?”
“Non salvarlo,” rispose Julian. “Solo tenerlo nel giusto equilibrio di bene e male, ma più che altro perché sapevano che il Male si era legato una bomba atomica addosso.”
Mattia si era alzato in piedi. “No, no, no! Non puoi fare una cosa del genere, dopo tutti questi anni! Che razza di stronzata è?”
Julian si passò una mano sulla faccia. “E’ la fine di una storia. La fine logica di una storia. Prima o poi doveva succedere.”
“Quindi abbiamo giocato per anni per niente. Niente!” Mattia non voleva abbassare la voce. Gli feci segno di non urlare ma mi ignorò. “Vaffanculo, sei un coglione Julian. Mi mancava pochissimo per il prossimo livello. Avevo già pensato a un nuovo incantesimo da creare e adesso invece niente, tutto finito, distrutto.”
“Non abbiamo giocato per niente,” disse Daniele. “È un gioco di ruolo, non è Monopoli. In fondo Julian ha ragione, la storia è comp…”
“La storia è completa un cazzo!”
Scattai in piedi anche io. “Porca troia, Mattia! Vuoi piantarla di gridare, almeno? Fattene una ragione, è andata così. Abbiamo finito. Abbiamo distrutto un universo.”
Andrea scosse la testa. “Non avevo mai giocato niente del genere. Grandioso.”
“Mi sembrate una manica di coglioni,” disse Mattia, finalmente a un volume civile. “Tu per primo, Julian. Vaffanculo, me ne vado.”
Si avvicinò al tavolo, cercò di prendere la scheda del suo personaggio ma era rimasta sotto al televisore. Tirò il fogliò, stizzito, ma gli rimase in mano solo un pezzo della scheda.
“Al diavolo,” disse. Se ne andò senza salutare. Sentimmo solo la porta sbattuta alle sue spalle.
“Tranquillo, gli passerà,” disse Andrea. “È fatto così.”
“Non importa,” disse Julian. “A modo suo voleva farmi capire che gli è piaciuto giocare.”
“Sì, ma è uno stronzo lo stesso.”
“Dai, Dani, lascia perdere,” disse Julian. “È stanco. Siamo tutti stanchi. Che razza di ore sono?”
“Le tre e quarantacinque,” dissi. “Meno male che non c’è da dividersi il tesoro, così posso prendere il notturno senza dover fare delle corse.”
Da sotto arrivò il rumore del Ciao di Mattia che si metteva in moto.
Daniele si alzò e si avvicinò al televisore. “Dai, rimettiamo a posto.”
Mattia si allontanò in tutto lo splendore dell’effetto doppler, il suono del motore che diventava sempre più acuto fino a svanire dallo spettro auditivo.
“Certo che è stato davvero un finale a sorpresa,” disse Andrea. “Al tre lo tiriamo su, ok? Uno, due, tre. Ma c’era… piano… c’era un modo per evitare di disintegrare l’universo?”
Julian armeggiò con i cavi dietro al televisore. “Certo. Non uccidere Atroxan.”
Andrea scosse la testa. “Ma dovevamo ucciderlo. Quindi non avevamo scelta.”
“No, non è che dovevate ucciderlo. Avete deciso di ucciderlo. Dopo le batoste che gli avevate rifilato avrebbe avuto bisogno di parecchio tempo per rimettersi in sesto. Era quello che avevano cercato di farvi capire i Guardiani della Fiamma.”
“Quindi tu sapevi che l’avremmo ucciso,” chiesi.
“Sapevo che ci avreste provato, certo. E sapevo che avevate buone possibilità di farcela. Ma se avessi sbagliato l’ultimo tiro non avrei certo avuto pietà. Lo sapevo dalla settimana scorsa, che questa in un modo o nell’altro sarebbe stata l’ultima sessione della campagna. Siete così prevedibili.”
Andrea raccolse i suoi dadi. “E adesso? Che si fa?”
Julian si versò l’ultimo sorso di Lemonsoda rimasta.
“Dopo l’estate iniziamo una nuova campagna, penso. Magari scoprirete qualcosa sulle motivazioni di Atroxan. Dopo tutto avete distrutto un universo, ma si chiama multiverso per un motivo, no?”
“Sarà meglio dirlo a Mattia prima che venga a picchiarti,” disse Daniele.
Ridemmo, e quello è l’ultimo ricordo che ho di quella serata.
Due giorni dopo ero su un traghetto per la Sardegna con i miei genitori e mia sorella.
Quando tornai, alla fine di agosto, scoprii che quello creato da Julian non era l’unico universo andato in frantumi.

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